domenica 13 settembre 2009

Felici si può diventare

La felicità è un esercizio, basta allenarsi bene.
di Alessandro Scuotto

Alcune recenti ricerche hanno posto l'accento sulla mancanza di corrispondenza tra la felicità percepita e il livello di benessere economico.

Nella società occidentale viviamo attualmente in un condizion in cui la disponibilità di beni e servizi è vasta come mai lo è stata nella storia dell'umanità, notevolmente superiore alle possibilità concrete di consumo; ciò nonostante vi è una crescente incidenza nella popolazione di condizioni di disagio esistenziale, di depressione e di maattie psicosomatiche.

In uno scenario di questo tipo suona quanto mai appropriata la domanda provocatoria "Che cosa non va nella felicità?" con la quale Zygmunt Bauman apre l'introduzione al suo saggio di recente pubblicazione, L'arte della vita (Laterza, 2009).

L'analisi condotta dal filosofo porta alla conclusione che il principale ostacolo alla felicità è l'obbligo alla felicità. Un modello sociale nel quale il rapido consumo è sostenuto dalla necessità di conseguire altri beni di consumo, rinvia continuamente nel futuro indeterminato la soddisfazione della conquista e impone una coazione a ripetere. Il valore di una vita piacevole viene rimpiazzato dall'ambizione a raggiungerla, si sostituisce così il beneficio assicurato dalla realizzazione con la frustrazione di una corsa inefficace verso un traguardo incessantemente rimosso.

Come la costrizione alla libertà, teorizzata da Rousseau, ha mostrato i suoi limiti ed è stata smentita dall'esperienza storica; come è impossibile costringere all'amore, così la coercizione a cercare la felicità non conduce alla felicità: si può essere felici, m non vi è obbligo alla ricerca della felicità.

Per condurre un'esistenza gioiosa, quindi, non si può prescindere dall'esercizio libero della volontà, ma questo esercizio si incontra - talvolta si scontra --con le ineludibili richieste dell'ambiente. L'atteggiamento flessibile nei confronti di queste eventuali frizioni è, a questo punto, necessario. Ciò non implica un adattamento passivo: il confronto con le avversità in uno stato di rassegnazione conduce inevitabilmente alla depressione; né ha senso negare l'esistenza delle esperienze negative: la fga dalla realtà porta verso atmosfere deliranti che non aiutano a vivere meglio. Al contrario l'impegno attivo di abilità, che si posono acquisire e perfezionare, favorisc la ricerca e l'attuazione di soluzioni possibili e ci consente di scorgere opportunità celate dietro gli ostacoli apparenti.

Dietro questo assunto teorico c'è un risvolto metodologico che comporta la possibilità di osserare i fenomeni da punti di vista differenti. Secondo una corrente di pensiero, originata negi Stati Uniti nell'utimo ventennio del secolo scorso e sfociat successivamente nella "psicologia positiva". l'atteggiamento ottimistico o pessimistico della persona fa a differenza. Beninteso, l'atteggiamento ottimistico non è il risultato di un pensiero ossessivamente orientato a "tutto-va-bene" quando è presente una situazione difficile, ma è proprio il prodotto di una flessibilità interpretatativa.

L'atteggiamento ottimista si può imparare con delle tecniche semplici di acquisizione di abilità cognitiva. Il punto di parenza è la considerazione che ciascuno di noi, nei confronti delle esperienze della vita, tesse un dialogo interiore attraverso il quale elabora una interpretazione della realtà. Attribuisce, in altre parole, ad ogni evento una causa. Questo procedimento mentale ha un suo stile, lo "stile di attribuzione causale" che ha tre caratteristiche peculiari: permanenza/transitorietà, pervasività (specifica/universale), personalizzazione.

Nei confronti di una avversità la persona pessimista tende a dare una spiegazione di tipo permanente nel tempo (sempre, mai...), a pervasività universale quando un fallimento colpisce un ambito della sua vita si arrende anche in tutti gli altri) e con personalizzazione (è colpa mia!). Gli ottimisti si spiegano le avvesità della vita in senso temporaneo (non permanente), con pervasività specifica (limitando la circostanza negativa all'ambito nel quale si è verificata) e con minore personalizzazione (la colpa non è mia o almeno non del tutto mia).

Lo stile di attribuzione causale, o stile esplicativo, che conduce al pessimismo comporta l'instaurarsi di una condizione definita "impotenza appresa" nella quale l'individuo si sente completamente in balia degli eventi. Lo stile esplicativo ottimistico, invece, genera la sensazione di poter esercitare un controllo pesonale sugli eventi ed incrementa l'autostima.

Ma nella pratica?
Il primo passo fondamentale è riconoscere il dialogo interiore e osservare le frasi che rimandiamo a noi stessi nel momento in cui si verifica una circostanza avversa. Pensieri del tipo "capita sempre a me", "avessi mai la fortuna che...", "non c'è due senza tre", ecc. hanno un alto grado di permanenza; "è una rovina", "è completamente distrutto", "sono finito", ecc. hanno un alto grado di pervasività; "non avrei dovuto azzardarmi", "è colpa mia", "sono un incapace", ecc. hanno un alto livello di personalizzazione.

Bene! La cosa sorprendente è che nella gran parte dei casi queste affermazioni sono false! Uno degli esercizi logici più utili è quello di esaminare il pensiero e chiedersi "ma è davvero così come sto dicendo?". "E' una rovina"? o piuttosto "è un danno di qualche parte"; "capita sempre a me" significa che "dall'epoca della mia nascita a tutt'oggi questo evento si è verificato in maniera ineluttabile e ripetitiva ai miei danni", e via così. Quello che scopriamo allora è che spesso il nostro dialogo interiore, sottoposto alla pressione emozionale, scatta automatico e inconsapevole producendo una serie di affermazioni che addirittura non condividiamo!

Come è possibile questo? Perché posso pensare cose nelle quali non credo?
Perché questi pensieri non ci appartengono, non sono i nostri, sono presi a prestito dall'esternoe sono liberati quando il controllo razionale diventa meno vigile perché sommerso dall'energia dell'emozione. Questi pensieri "esterni" si inseriscono nei nostri circuiti e "si accomodano" perché ben veicolati da un investimento emotivo-affettivo: in parole semplici tendiamo a far proprie quelle affermazioni che sentiamo ripetutamente espresse dalle persone alle quali attribuiamo un ruolo per noi formativo sostenuto sul piano sentimentale: genitori, maestri, ideologi, ecc.

A questo punto il lavoro da fare con se stessi è un allenamento psicologico, una ginnastica nella palestra della mente che - come quella del fisico irrobustisce i muscoli - porta a rinvigorire le nostre attitudini mentali.

Nel corso di un'intervista rilasciata in occasione del suo ottantacinquesimo compleanno (26 luglio 1960) fu chiesto a Jung quali fossero i fattori fondamentali per la felicità interiore dell'uomo. Il celebre psichiatra svizzero elencò i seguenti:
Primo: una buona salute fisica e mentale.
Secondo: relazioni personali e intime soddisfacenti.
Terzo: la capacità di percepire la bellezza nell'arte e nella natura.
Quarto: un livello di vita sufficiente e un lavoro soddisfacente.
Quinto: un punto di vista filosofico o religioso capace di farci affrontare bene le vicisitudini della vita. Precisando successivamente che la visione filosofica o religiosa deve essere accompagnata da una coerente moralità pratica, perché senza di essa filosofia e religione rimangono pure finzioni, prive di efficacia concreta.

I punti sinteticamente indicati da Jung illustrano con chiarezza la mappa di orientamento per esplorare con costanza i territori dell'esistenza.

La buona salute è più probabile - è statisticamente accertato - nelle persone che hanno un atteggiamento ottimista ed è sostenuta dall'attenzione alla prevenzione e al prendersi cura di sé. Assumere impegni relazionali, che scaturiscono dall'impiego corretto dell'intelligenza sociale, e prendersi cura di altri fornisce energie per il benessere emozionale, laddove l'impegno-fobia sciupa la relazione in una modalità consumistica, riducendola a dipendenza. Il pensiero astratto e il comportamento verso il bello ci invitano a varcare la soglia della gratificazione sensoriale per proiettarci verso l'esperienza di gioia. Il piacere intrinseco per il lavoro ben fatto trasmette il senso della nostra opera quotidiana oltre il tempo e arricchisce l'umanità intera. L'aspetto morale che accompagna la visione trascendente (filosofica o religiosa) della vita è espressione spontanea di libertà poiché, per dirla con le parole di Bauman, il conformarsi non è moralità, ma sentirsi parte di un qualcosa di più grande di noi ci conferisce dignità e valore.

Articolo pubblicato, con alcune modifiche, sul quotidiano L'Ordine, 11 settembre 2009.

2 commenti:

Anonimo ha detto...

Ho letto "...il confronto con le avversità in uno stato di rassegnazione conduce inevitabilmente alla depressione..."

Un'asserzione quella letta e riportata più sopra che mi ha colpito violentemente. Ognuno di noi elabora i concetti in modo diverso a seconda delle sue esperienze, inclinazioni e cultura.

Io mi sono riconosciuta in quest'atteggiamento fatalista che ha condizionato pesantemente la mia reattività di fronte ad ogni avversità. Ed attribuisco la mia tristezza cosmica ( ..o depressione ?) a fattori quali le circostanze, il fato, la mia età o quant'altro.

Dovrò riflettere molto su quanto ho letto: non posso certo permettere di attribuire a cause esterne la mia incapacità di reagire, causando in questo modo a me stessa solo pessimismo ed infelicità!

Ringrazio di cuore l'autore dell'articolo.

Rosamaria

Unknown ha detto...

Ciao!
Mi ha colpito molto questo articolo apparso sul corriere una quindicina di giorni fa..ti ho pensato leggendolo!
Ciao
Morena

http://archiviostorico.corriere.it/2009/agosto/31/Troppi_alibi_siamo_quasi_sempre_co_8_090831001.shtml