L'utopia è come l'orizzonte: cammino due passi, e si allontana di due passi. Cammino di dieci passi, e si allontana di dieci passi. E allora, a cosa serve l'utopia? A questo: serve per continuare a camminare. (E.H. Galeano)
E' on line il N. 49-54
LeConnessioniInattese.it
-Ampiezza di vedute (A. Scuotto)
-Il nome della rosa (A.Torri)
-Da "Scepsi viscerale" (R. Germano)
-Napoli, piazza Bellini (S. Scuotto)
-Risposta a "Napoli, piazza Bellini" (M. Germano)
giovedì 10 dicembre 2009
giovedì 26 novembre 2009
martedì 24 novembre 2009
Chi lavora non mangia?
Dieta e lavoro
di Alessandro Scuotto
Un proverbio popolare suggerisce che “chi non lavora non mangia”. Sembra che l’adagio sia stato rovesciato poiché di recente (Corriere della Sera.it) è stato sottolineato che la “pausa pranzo” rappresenti un danno per il lavoro; si è avanzata così la proposta dell’abolizione o di una consistente riduzione del tempo dedicato al pasto di mezzogiorno.
Il confronto con altre popolazioni sembra dar ragione a questa proposta, tuttavia l’accostamento tra le abitudini alimentari dei paesi del mediterraneo e di quelli del mondo anglosassone richiede un’analisi più approfondita. Se, infatti, il cittadino italiano impiega mediamente più tempo per il pranzo rispetto ad un inglese, è pur vero che il tipo di colazione mattutina consumata dai due è completamente differente.
Pur rispettando esigenze e consuetudini individuali, l’importazione parziale e l’estensione su larga scala di abitudini particolari potrebbe avere effetti spiacevoli.
Subordinare l’efficienza produttiva presunta al benessere della persona è un errore che incide negativamente sulla stessa capacità produttiva e sulle condizioni sociali.
Saltare del tutto il pasto determina un calo energetico per il metabolismo che si tradurrebbe in una riduzione della validità del lavoratore; d’altra parte ridurre l’orario disponibile per consumare gli alimenti induce ad un consumo frettoloso degli stessi. Questa condizione è la principale causa di ingestione involontaria di aria con conseguente meteorismo e collegati disturbi addominali, può inoltre facilitare la comparsa di reflusso esofageo.
Si è prospettata l’ipotesi di consumare i pasti durante le occupazioni lavorative. Anche questa non è una buona idea: è dimostrato infatti che occuparsi di altro (ad esempio guardare la tv) mentre si mangia, favorisce l’assunzione inconsapevole degli alimenti, incrementando il rischio di obesità e di malattie metaboliche.
La cosiddetta “dieta mediterranea” rappresenta un riferimento scientifico consolidato di equilibrio e di benessere con prove innumerevoli del valore preventivo nei confronti delle patologie più diffuse nel mondo occidentale. Parrebbe strano che in un paese come il nostro, che fa dell’alta qualità dei prodotti alimentari una componente fondamentale dello stile per il quale è riconosciuto ed apprezzato all’estero, possa farsi strada l’ipotesi di sovvertire le abitudini sane per inseguire un modello estraneo alla cultura tradizionale.
di Alessandro Scuotto
Un proverbio popolare suggerisce che “chi non lavora non mangia”. Sembra che l’adagio sia stato rovesciato poiché di recente (Corriere della Sera.it) è stato sottolineato che la “pausa pranzo” rappresenti un danno per il lavoro; si è avanzata così la proposta dell’abolizione o di una consistente riduzione del tempo dedicato al pasto di mezzogiorno.
Il confronto con altre popolazioni sembra dar ragione a questa proposta, tuttavia l’accostamento tra le abitudini alimentari dei paesi del mediterraneo e di quelli del mondo anglosassone richiede un’analisi più approfondita. Se, infatti, il cittadino italiano impiega mediamente più tempo per il pranzo rispetto ad un inglese, è pur vero che il tipo di colazione mattutina consumata dai due è completamente differente.
Pur rispettando esigenze e consuetudini individuali, l’importazione parziale e l’estensione su larga scala di abitudini particolari potrebbe avere effetti spiacevoli.
Subordinare l’efficienza produttiva presunta al benessere della persona è un errore che incide negativamente sulla stessa capacità produttiva e sulle condizioni sociali.
Saltare del tutto il pasto determina un calo energetico per il metabolismo che si tradurrebbe in una riduzione della validità del lavoratore; d’altra parte ridurre l’orario disponibile per consumare gli alimenti induce ad un consumo frettoloso degli stessi. Questa condizione è la principale causa di ingestione involontaria di aria con conseguente meteorismo e collegati disturbi addominali, può inoltre facilitare la comparsa di reflusso esofageo.
Si è prospettata l’ipotesi di consumare i pasti durante le occupazioni lavorative. Anche questa non è una buona idea: è dimostrato infatti che occuparsi di altro (ad esempio guardare la tv) mentre si mangia, favorisce l’assunzione inconsapevole degli alimenti, incrementando il rischio di obesità e di malattie metaboliche.
La cosiddetta “dieta mediterranea” rappresenta un riferimento scientifico consolidato di equilibrio e di benessere con prove innumerevoli del valore preventivo nei confronti delle patologie più diffuse nel mondo occidentale. Parrebbe strano che in un paese come il nostro, che fa dell’alta qualità dei prodotti alimentari una componente fondamentale dello stile per il quale è riconosciuto ed apprezzato all’estero, possa farsi strada l’ipotesi di sovvertire le abitudini sane per inseguire un modello estraneo alla cultura tradizionale.
venerdì 20 novembre 2009
20° anniversario della Convenzione sui Diritti dell'Infanzia
dal preambolo:
...nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo le Nazioni Unite hanno proclamato che l'infanzia ha diritto a un aiuto e a un'assistenza particolari;
...occorre preparare pienamente il fanciullo ad avere una sua vita individuale nella società, ed educarlo nello spirito degli ideali proclamati nella Carta delle Nazioni Unite, in particolare in uno spirito di pace, di dignità, di tolleranza, di libertà, di uguaglianza e di solidarietà;
dal testo della Convenzione approvata dall'Assemblea generale delle Nazioni Unite il 20 novembre 1989, ratificata dall'Italia con legge del 27 maggio 1991, n. 176, depositata presso le Nazioni Unite il 5 settembre 1991. (traduzione italiana pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale dell'11 giugno 1991):
Art. 2
Gli Stati parti si impegnano a rispettare i diritti enunciati nella presente Convenzione e a garantirli a ogni fanciullo che dipende dalla loro giurisdizione, senza distinzione di sorta e a prescindere da ogni considerazione di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica o altra del fanciullo o dei suoi genitori o rappresentanti legali, dalla loro origine nazionale, etnica o sociale, dalla loro situazione finanziaria, dalla loro incapacità, dalla loro nascita o da ogni altra circostanza.
Gli Stati parti adottano tutti i provvedimenti appropriati affinché il fanciullo sia effettivamente tutelato contro ogni forma di discriminazione o di sanzione motivate dalla condizione sociale, dalle attività, opinioni professate o convinzioni dei suoi genitori, dei suoi rappresentanti legali o dei suoi familiari.
Art. 3
In tutte le decisioni relative ai fanciulli, di competenza delle istituzioni pubbliche o private di assistenza sociale, dei tribunali, delle autorità amministrative o degli organi legislativi, l'interesse superiore del fanciullo deve essere una considerazione preminente.
Gli Stati parti si impegnano ad assicurare al fanciullo la protezione e le cure necessarie al suo benessere, in considerazione dei diritti e dei doveri dei suoi genitori, dei suoi tutori o di altre persone che hanno la sua responsabilità legale, e a tal fine essi adottano tutti i provvedimenti legislativi e amministrativi appropriati.
Gli Stati parti vigilano affinché il funzionamento delle istituzioni, servizi e istituti che hanno la responsabilità dei fanciulli e che provvedono alla loro protezione sia conforme alle norme stabilite dalle autorità competenti in particolare nell'ambito della sicurezza e della salute e per quanto riguarda il numero e la competenza del loro personale nonché l'esistenza di un adeguato controllo.
...nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo le Nazioni Unite hanno proclamato che l'infanzia ha diritto a un aiuto e a un'assistenza particolari;
...occorre preparare pienamente il fanciullo ad avere una sua vita individuale nella società, ed educarlo nello spirito degli ideali proclamati nella Carta delle Nazioni Unite, in particolare in uno spirito di pace, di dignità, di tolleranza, di libertà, di uguaglianza e di solidarietà;
dal testo della Convenzione approvata dall'Assemblea generale delle Nazioni Unite il 20 novembre 1989, ratificata dall'Italia con legge del 27 maggio 1991, n. 176, depositata presso le Nazioni Unite il 5 settembre 1991. (traduzione italiana pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale dell'11 giugno 1991):
Art. 2
Gli Stati parti si impegnano a rispettare i diritti enunciati nella presente Convenzione e a garantirli a ogni fanciullo che dipende dalla loro giurisdizione, senza distinzione di sorta e a prescindere da ogni considerazione di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica o altra del fanciullo o dei suoi genitori o rappresentanti legali, dalla loro origine nazionale, etnica o sociale, dalla loro situazione finanziaria, dalla loro incapacità, dalla loro nascita o da ogni altra circostanza.
Gli Stati parti adottano tutti i provvedimenti appropriati affinché il fanciullo sia effettivamente tutelato contro ogni forma di discriminazione o di sanzione motivate dalla condizione sociale, dalle attività, opinioni professate o convinzioni dei suoi genitori, dei suoi rappresentanti legali o dei suoi familiari.
Art. 3
In tutte le decisioni relative ai fanciulli, di competenza delle istituzioni pubbliche o private di assistenza sociale, dei tribunali, delle autorità amministrative o degli organi legislativi, l'interesse superiore del fanciullo deve essere una considerazione preminente.
Gli Stati parti si impegnano ad assicurare al fanciullo la protezione e le cure necessarie al suo benessere, in considerazione dei diritti e dei doveri dei suoi genitori, dei suoi tutori o di altre persone che hanno la sua responsabilità legale, e a tal fine essi adottano tutti i provvedimenti legislativi e amministrativi appropriati.
Gli Stati parti vigilano affinché il funzionamento delle istituzioni, servizi e istituti che hanno la responsabilità dei fanciulli e che provvedono alla loro protezione sia conforme alle norme stabilite dalle autorità competenti in particolare nell'ambito della sicurezza e della salute e per quanto riguarda il numero e la competenza del loro personale nonché l'esistenza di un adeguato controllo.
giovedì 19 novembre 2009
mercoledì 18 novembre 2009
La Vita, la Forma, la Relazione
domenica 1 novembre 2009
martedì 22 settembre 2009
Felicità e PIL
Quel (brutto) vizio di pensare che attraverso il Pil si possa misurare tutto
di Alessandro Scuotto
Se a stimolare l'interesse dei mezzi di informazione sul rapporto ricchezze e felicità sia la contingenza economica non favorevole oppure se sia la progressiva consapevolezza che lo stile di vita attualmente vissuto in occidente appare sempre meno esportabile al resto del globo perché insostenibile, è difficile da dire. Certo, leggendo alcune notizie corredate di rafinate analisi statistiche si può indulgere a rassicuranti conclusioni: "Il denaro, in fondo, non dà la felicità", ma il luogo comune è umoristicamente facile da infrangere, "Figuriamoci la miseria!" (W. Allen).
La realtà è che l'accostamento tra i due temi è improprio e sitemi di valutazione dell'uno non si adattano ad esprimere considerazioni sull'altro: come sottolinea efficacemente P. Legrenzi sul Sole 24ore, è come confrontare ciliege e mele. Lo stato di benessere soggettivo non è correlato con l'indicatore più noto di ricchezza di una comunità, il Prodotto Interno Lordo.
Questa dissociazione è nota da tempo, è sorprendente invece come sia stato possibile generare la falsa convinzione di una loro relazione. In un articolo, apparso il mese sorso su Herald Tribune, il filosofo statunitensa Simon Critchley pone provocatoriamente l'accento sul sistema di valori nel mondo attuale, nel quale la sola cosa in cui possiamo avere fede è il denaro. La declinazione come fine di ciò che, per sua natura, è un mezzo è alla base di una distorsione interpretativa e conduce a valutazioni inappropriate.
La necessità di nuovi indicatori di salute di un paese o di una comunità, suggeriti dalla commissione Stiglitz, non è nuova, ma è un passo avanti nella valutazione del benessere non solo connesso al reddito o all'occupazione, ma anche alla soddisfazione nelle relazioni personali e alla sensazione di avere uno scopo nella vita. L'idea di considerare la Felicità Nazionale Lorda, di cui il piccolo regno himalayano del Bhutan è stato pecursore, non sostituisce l'indicazione del PIL, ma lo affianca nel delineare con maggiore precisione la condizione degli abitanti.
Per concludere "Il calcolo del nostro PIL tiene conto dell'inquinamento atmosferico, della pubblicità delle sigarette e delle corse in ambulanza per soccorrere i feriti sulle strade. Mette in conto i sistemi di sicurezza che acquistiamo per proteggere le nostre case e il costo delle prigioni in cui rinchiudiamo coloro i quali riescono a penetrarvi. Integra la distruzione delle nostre foreste di sequioe e la loro sostituzione con un'urbanizzazione tentacolare e caotica. Comprende la produzione del napalm, delle armi nuclearie delle automobili blindate della polizia destinate a reprimere i disordini nelle nostre città. Mette in conto... i programmi televisivi che glorificano la violenza allo scopo di vendere i giocattoli corrispondenti ai nostri bambini. In compenso il PIL non tiene conto della salute dei nostri figli, della qualità della loro istruzione né dell'allegria dei loro giochi. Non misura la bellezza della nostra poesia o la solidità dei nostri matrimoni. Non pensa a valutare la qualità dei nostri dibattiti politici o l'integrità dei nostri rappresentanti. Non tiene conto del nostro coraggio, della nostra saggezza o della nostra cultura. Non dice nulla della nostra pietà o dell'attaccamento al nostro paese. In breve, il PIL misura tutto, tranne quello che rende la vita degna di essere vissuta."
Queste parole sono estratte da un discorso di Robert Kennedy tenuto durante la sua campagna elettorale il 18 marzo 1968.
Articolo pubblicato sul quotidiano L'Ordine, 22 settembre 2009.
domenica 13 settembre 2009
Felici si può diventare
La felicità è un esercizio, basta allenarsi bene.
di Alessandro Scuotto
di Alessandro Scuotto
Alcune recenti ricerche hanno posto l'accento sulla mancanza di corrispondenza tra la felicità percepita e il livello di benessere economico.
Nella società occidentale viviamo attualmente in un condizion in cui la disponibilità di beni e servizi è vasta come mai lo è stata nella storia dell'umanità, notevolmente superiore alle possibilità concrete di consumo; ciò nonostante vi è una crescente incidenza nella popolazione di condizioni di disagio esistenziale, di depressione e di maattie psicosomatiche.
In uno scenario di questo tipo suona quanto mai appropriata la domanda provocatoria "Che cosa non va nella felicità?" con la quale Zygmunt Bauman apre l'introduzione al suo saggio di recente pubblicazione, L'arte della vita (Laterza, 2009).
L'analisi condotta dal filosofo porta alla conclusione che il principale ostacolo alla felicità è l'obbligo alla felicità. Un modello sociale nel quale il rapido consumo è sostenuto dalla necessità di conseguire altri beni di consumo, rinvia continuamente nel futuro indeterminato la soddisfazione della conquista e impone una coazione a ripetere. Il valore di una vita piacevole viene rimpiazzato dall'ambizione a raggiungerla, si sostituisce così il beneficio assicurato dalla realizzazione con la frustrazione di una corsa inefficace verso un traguardo incessantemente rimosso.
Come la costrizione alla libertà, teorizzata da Rousseau, ha mostrato i suoi limiti ed è stata smentita dall'esperienza storica; come è impossibile costringere all'amore, così la coercizione a cercare la felicità non conduce alla felicità: si può essere felici, m non vi è obbligo alla ricerca della felicità.
Per condurre un'esistenza gioiosa, quindi, non si può prescindere dall'esercizio libero della volontà, ma questo esercizio si incontra - talvolta si scontra --con le ineludibili richieste dell'ambiente. L'atteggiamento flessibile nei confronti di queste eventuali frizioni è, a questo punto, necessario. Ciò non implica un adattamento passivo: il confronto con le avversità in uno stato di rassegnazione conduce inevitabilmente alla depressione; né ha senso negare l'esistenza delle esperienze negative: la fga dalla realtà porta verso atmosfere deliranti che non aiutano a vivere meglio. Al contrario l'impegno attivo di abilità, che si posono acquisire e perfezionare, favorisc la ricerca e l'attuazione di soluzioni possibili e ci consente di scorgere opportunità celate dietro gli ostacoli apparenti.
Dietro questo assunto teorico c'è un risvolto metodologico che comporta la possibilità di osserare i fenomeni da punti di vista differenti. Secondo una corrente di pensiero, originata negi Stati Uniti nell'utimo ventennio del secolo scorso e sfociat successivamente nella "psicologia positiva". l'atteggiamento ottimistico o pessimistico della persona fa a differenza. Beninteso, l'atteggiamento ottimistico non è il risultato di un pensiero ossessivamente orientato a "tutto-va-bene" quando è presente una situazione difficile, ma è proprio il prodotto di una flessibilità interpretatativa.
L'atteggiamento ottimista si può imparare con delle tecniche semplici di acquisizione di abilità cognitiva. Il punto di parenza è la considerazione che ciascuno di noi, nei confronti delle esperienze della vita, tesse un dialogo interiore attraverso il quale elabora una interpretazione della realtà. Attribuisce, in altre parole, ad ogni evento una causa. Questo procedimento mentale ha un suo stile, lo "stile di attribuzione causale" che ha tre caratteristiche peculiari: permanenza/transitorietà, pervasività (specifica/universale), personalizzazione.
Nei confronti di una avversità la persona pessimista tende a dare una spiegazione di tipo permanente nel tempo (sempre, mai...), a pervasività universale quando un fallimento colpisce un ambito della sua vita si arrende anche in tutti gli altri) e con personalizzazione (è colpa mia!). Gli ottimisti si spiegano le avvesità della vita in senso temporaneo (non permanente), con pervasività specifica (limitando la circostanza negativa all'ambito nel quale si è verificata) e con minore personalizzazione (la colpa non è mia o almeno non del tutto mia).
Lo stile di attribuzione causale, o stile esplicativo, che conduce al pessimismo comporta l'instaurarsi di una condizione definita "impotenza appresa" nella quale l'individuo si sente completamente in balia degli eventi. Lo stile esplicativo ottimistico, invece, genera la sensazione di poter esercitare un controllo pesonale sugli eventi ed incrementa l'autostima.
Ma nella pratica?
Il primo passo fondamentale è riconoscere il dialogo interiore e osservare le frasi che rimandiamo a noi stessi nel momento in cui si verifica una circostanza avversa. Pensieri del tipo "capita sempre a me", "avessi mai la fortuna che...", "non c'è due senza tre", ecc. hanno un alto grado di permanenza; "è una rovina", "è completamente distrutto", "sono finito", ecc. hanno un alto grado di pervasività; "non avrei dovuto azzardarmi", "è colpa mia", "sono un incapace", ecc. hanno un alto livello di personalizzazione.
Bene! La cosa sorprendente è che nella gran parte dei casi queste affermazioni sono false! Uno degli esercizi logici più utili è quello di esaminare il pensiero e chiedersi "ma è davvero così come sto dicendo?". "E' una rovina"? o piuttosto "è un danno di qualche parte"; "capita sempre a me" significa che "dall'epoca della mia nascita a tutt'oggi questo evento si è verificato in maniera ineluttabile e ripetitiva ai miei danni", e via così. Quello che scopriamo allora è che spesso il nostro dialogo interiore, sottoposto alla pressione emozionale, scatta automatico e inconsapevole producendo una serie di affermazioni che addirittura non condividiamo!
Come è possibile questo? Perché posso pensare cose nelle quali non credo?
Perché questi pensieri non ci appartengono, non sono i nostri, sono presi a prestito dall'esternoe sono liberati quando il controllo razionale diventa meno vigile perché sommerso dall'energia dell'emozione. Questi pensieri "esterni" si inseriscono nei nostri circuiti e "si accomodano" perché ben veicolati da un investimento emotivo-affettivo: in parole semplici tendiamo a far proprie quelle affermazioni che sentiamo ripetutamente espresse dalle persone alle quali attribuiamo un ruolo per noi formativo sostenuto sul piano sentimentale: genitori, maestri, ideologi, ecc.
A questo punto il lavoro da fare con se stessi è un allenamento psicologico, una ginnastica nella palestra della mente che - come quella del fisico irrobustisce i muscoli - porta a rinvigorire le nostre attitudini mentali.
Nel corso di un'intervista rilasciata in occasione del suo ottantacinquesimo compleanno (26 luglio 1960) fu chiesto a Jung quali fossero i fattori fondamentali per la felicità interiore dell'uomo. Il celebre psichiatra svizzero elencò i seguenti:
Primo: una buona salute fisica e mentale.
Secondo: relazioni personali e intime soddisfacenti.
Terzo: la capacità di percepire la bellezza nell'arte e nella natura.
Quarto: un livello di vita sufficiente e un lavoro soddisfacente.
Quinto: un punto di vista filosofico o religioso capace di farci affrontare bene le vicisitudini della vita. Precisando successivamente che la visione filosofica o religiosa deve essere accompagnata da una coerente moralità pratica, perché senza di essa filosofia e religione rimangono pure finzioni, prive di efficacia concreta.
I punti sinteticamente indicati da Jung illustrano con chiarezza la mappa di orientamento per esplorare con costanza i territori dell'esistenza.
La buona salute è più probabile - è statisticamente accertato - nelle persone che hanno un atteggiamento ottimista ed è sostenuta dall'attenzione alla prevenzione e al prendersi cura di sé. Assumere impegni relazionali, che scaturiscono dall'impiego corretto dell'intelligenza sociale, e prendersi cura di altri fornisce energie per il benessere emozionale, laddove l'impegno-fobia sciupa la relazione in una modalità consumistica, riducendola a dipendenza. Il pensiero astratto e il comportamento verso il bello ci invitano a varcare la soglia della gratificazione sensoriale per proiettarci verso l'esperienza di gioia. Il piacere intrinseco per il lavoro ben fatto trasmette il senso della nostra opera quotidiana oltre il tempo e arricchisce l'umanità intera. L'aspetto morale che accompagna la visione trascendente (filosofica o religiosa) della vita è espressione spontanea di libertà poiché, per dirla con le parole di Bauman, il conformarsi non è moralità, ma sentirsi parte di un qualcosa di più grande di noi ci conferisce dignità e valore.
Articolo pubblicato, con alcune modifiche, sul quotidiano L'Ordine, 11 settembre 2009.
giovedì 23 luglio 2009
Efficacia dell'aromaterapia
Una ricerca dell'Università di Tokio, pubblicata recentemente su ACS Journal of Agricoltural and Food Chemistry, dimostra che l'inalazione di aromi floreali riduce gli effetti indotti dallo stress.
Il lavoro è stato condotto utilizzando il Linololo (un aroma presente in molte piante) su topi sottoposti a condizioni di stress e monitorando l'espressione genica dei leucociti nel sangue.
Il lavoro è stato condotto utilizzando il Linololo (un aroma presente in molte piante) su topi sottoposti a condizioni di stress e monitorando l'espressione genica dei leucociti nel sangue.
martedì 21 luglio 2009
I fiori di Bach
articolo disponibile in versione integrale su www.medicitalia.it
La floriterapia di Bach è un metodo di cura naturale il cui oggetto non è la patologia organica dell'individuo, bensì la componente emozionale che rappresenta un disagio da sola o che si accomapagna allo stato di malattia.
I fiori di Bach presentano solo alcune analogie di preparzaione con i principi omeopatici, in particolare per quel che riguarda la diluizione, ma se ne discostano per altre caratteristiche (agitazione della soluzione, legge del simile).
Le ipotesi per il meccanismo d'azione della floriterapia si riconducono al presupposto che i fiori abbiano un'energia in grado di riportare in armonia uno stato emozionale alterato.
I risultati non sembrano ascrivibili alla casualità o a meccanismi di suggestione individuale che si possano ricondurre all'effetto placebo: le variazioni sono ottenute anche in organismi viventi non influenzabili sul piano cognitivo (animali e piante).
Nel pensiero originale di Edward Bach i rimedi floreali dovrebbero poter essere gestiti in autonomia dal soggetto che si prende cura di sé, ma questo non è sempre facile.
Lo stato emozionale nel presente su cui intervenire non sempre appare chiaro all'individuo coinvolto, per cui è opportuno rivolgersi ad un esperto che, con un'attenta osservazione dall'esterno, possa percepire quelle sfumature che meritano attenzione.
Incoraggiare la disponibilità a curarsi e agevolare le risorse interiori del soggetto è parte integrante della terapia, ma non è però sufficiente a garantirne l'esito favorevole.
Certamente accostarsi a questa metodologia terapeutica assume un valore di sostegno e di facilitazione, ma in nessun modo deve essere intesa a sottrarre il paziente alla applicazione di tecniche d'indagine e terapie di comprovata efficacia in medicina convenzionale.
La floriterapia di Bach è un metodo di cura naturale il cui oggetto non è la patologia organica dell'individuo, bensì la componente emozionale che rappresenta un disagio da sola o che si accomapagna allo stato di malattia.
I fiori di Bach presentano solo alcune analogie di preparzaione con i principi omeopatici, in particolare per quel che riguarda la diluizione, ma se ne discostano per altre caratteristiche (agitazione della soluzione, legge del simile).
Le ipotesi per il meccanismo d'azione della floriterapia si riconducono al presupposto che i fiori abbiano un'energia in grado di riportare in armonia uno stato emozionale alterato.
I risultati non sembrano ascrivibili alla casualità o a meccanismi di suggestione individuale che si possano ricondurre all'effetto placebo: le variazioni sono ottenute anche in organismi viventi non influenzabili sul piano cognitivo (animali e piante).
Nel pensiero originale di Edward Bach i rimedi floreali dovrebbero poter essere gestiti in autonomia dal soggetto che si prende cura di sé, ma questo non è sempre facile.
Lo stato emozionale nel presente su cui intervenire non sempre appare chiaro all'individuo coinvolto, per cui è opportuno rivolgersi ad un esperto che, con un'attenta osservazione dall'esterno, possa percepire quelle sfumature che meritano attenzione.
Incoraggiare la disponibilità a curarsi e agevolare le risorse interiori del soggetto è parte integrante della terapia, ma non è però sufficiente a garantirne l'esito favorevole.
Certamente accostarsi a questa metodologia terapeutica assume un valore di sostegno e di facilitazione, ma in nessun modo deve essere intesa a sottrarre il paziente alla applicazione di tecniche d'indagine e terapie di comprovata efficacia in medicina convenzionale.
giovedì 25 giugno 2009
Effetto Placebo: inganno, suggestione o terapia?
articolo disponibile in vesione integrale su www.medicitalia.it
La reazione benefica dell’organismo ad una sostanza o azione priva di efficacia terapeutica (placebo) è detta “effetto placebo” e si produce esclusivamente nel soggetto cosciente.
Nel rapporto medico-paziente una parte integrante non trascurabile dell’azione curativa si esprime in termini di facilitazione all’azione della terapia specifica.
Il meccanismo d’azione dell’effetto placebo è di tipo psicosomatico e si esplica attraverso la relazione tra attività psichica (attesa del risultato positivo), sistema nervoso (modificazioni neurovegetative secrezione e della concentrazione di mediatori chimici), apparati dell'organismo nella dinamica di coinvlgimento della psico-neuro-endocrino-immunologia (PNEI).
La reazione benefica dell’organismo ad una sostanza o azione priva di efficacia terapeutica (placebo) è detta “effetto placebo” e si produce esclusivamente nel soggetto cosciente.
Nel rapporto medico-paziente una parte integrante non trascurabile dell’azione curativa si esprime in termini di facilitazione all’azione della terapia specifica.
Il meccanismo d’azione dell’effetto placebo è di tipo psicosomatico e si esplica attraverso la relazione tra attività psichica (attesa del risultato positivo), sistema nervoso (modificazioni neurovegetative secrezione e della concentrazione di mediatori chimici), apparati dell'organismo nella dinamica di coinvlgimento della psico-neuro-endocrino-immunologia (PNEI).
giovedì 16 aprile 2009
Integrazione Omeopatia - Terapia Convenzionale
da: SanitàNews
http://www.sanitanews.it/quotidiano/intarticolo.php?id=2328&sendid=481
L’OMEOPATIA PUO’ RIDURRE GLI EFFETTI COLLATERALI DELLE TERAPIE ANTITUMORALI
L'omeopatia ridurrebbe notevolmente gli effetti collaterali delle terapie antitumorali senza limitarne l'efficacia. Sono queste le conclusioni alle quali sono giunti una serie di studi clinici che hanno analizzato gli effetti di diverse sostanze omeopatiche. Secondo quanto riporta l'associazione no-profit Cochrane Collaboration, specializzata proprio nell'esaminare gli effetti collaterali delle terapie farmacologiche, tale responso verrebbe da otto studi condotti presso il Royal London Homeopathic Hospital su un totale di 664 partecipanti. Tali ricerche per la prima volta hanno accertato gli effetti lenitivi delle sostanze omeopatiche su chemio e radioterapia. Più in particolare uno studio francese ha attestato che una crema a base di calendula ha ridotto la dermatite acuta in pazienti con carcinoma mammario in modo assai piu' significativo rispetto al trattamento convenzionale. Si è rivelata efficace anche la Traumeel S, una miscela che comprende belladonna, arnica, iperico e echinacea, in grado di ridurre le stomatiti se usata come collutorio. Nessuno di questi studi ha evidenziato che uno qualsiasi di questi trattamenti possa interferire con le terapie antitumorali e una ulteriore ricerca ha addirittura dimostrato che, proprio grazie all'alleviamento degli effetti collaterali, chi riceve cure omeopatiche interrompe di meno la radioterapia rispetto a chi segue solo terapie tradizionali.
http://www.sanitanews.it/quotidiano/intarticolo.php?id=2328&sendid=481
L’OMEOPATIA PUO’ RIDURRE GLI EFFETTI COLLATERALI DELLE TERAPIE ANTITUMORALI
L'omeopatia ridurrebbe notevolmente gli effetti collaterali delle terapie antitumorali senza limitarne l'efficacia. Sono queste le conclusioni alle quali sono giunti una serie di studi clinici che hanno analizzato gli effetti di diverse sostanze omeopatiche. Secondo quanto riporta l'associazione no-profit Cochrane Collaboration, specializzata proprio nell'esaminare gli effetti collaterali delle terapie farmacologiche, tale responso verrebbe da otto studi condotti presso il Royal London Homeopathic Hospital su un totale di 664 partecipanti. Tali ricerche per la prima volta hanno accertato gli effetti lenitivi delle sostanze omeopatiche su chemio e radioterapia. Più in particolare uno studio francese ha attestato che una crema a base di calendula ha ridotto la dermatite acuta in pazienti con carcinoma mammario in modo assai piu' significativo rispetto al trattamento convenzionale. Si è rivelata efficace anche la Traumeel S, una miscela che comprende belladonna, arnica, iperico e echinacea, in grado di ridurre le stomatiti se usata come collutorio. Nessuno di questi studi ha evidenziato che uno qualsiasi di questi trattamenti possa interferire con le terapie antitumorali e una ulteriore ricerca ha addirittura dimostrato che, proprio grazie all'alleviamento degli effetti collaterali, chi riceve cure omeopatiche interrompe di meno la radioterapia rispetto a chi segue solo terapie tradizionali.
mercoledì 1 aprile 2009
Risate e Salute
da: SanitàNews
http://www.sanitanews.it/quotidiano/intarticolo.php?id=2284&sendid=476
ATTRAVERSO UNA RISATA SI PU0’ INNALZARE LA SOGLIA DEL DOLORE
La rivista americana Mind ha svelato tutti i benefici del sorriso, anche di quello finto. Una risata rende infatti migliore l'umore, libera endorfine, aiuta a resistere allo stress, rilassa i muscoli del viso abbassa la pressione del sangue e addolcisce il latte materno. Secondo uno studio di Willibald Ruch, dell'Università di Zurigo, le risate che nascono da battute, commedie divertenti o barzellette riescono addirittura ad alzare la soglia del dolore. Ma gli studi fatti sul sorriso sono molti e tutti evidenziano il suo effetto terapeutico. Un recente lavoro pubblicato sull'International Journal of Obesity ha dimostrato che ridere 15 minuti al giorno può permettere di perdere oltre due chili in un anno. Questo grazie all'accelerazione del battito cardiaco e al coinvolgimento di molti muscoli. Secondo l'autore dello studio Maciej Buchowski, della Vanderbilt University presso Nashville in Tennessee, sorridere è un po' come camminare. Secondo un altro studio di Eric Bressler, del Westfield State College, le donne prediligono quegli uomini sotto la cui foto c'è una battuta attribuita al soggetto immortalato. La terapia del sorriso, inoltre, è molto utilizzata dagli psichiatri nella cura delle depressione lieve. Per gli psichiatri dell'università tedesca di Marburg, ridere aiuta a distaccarsi dai problemi e a vederli da un altro punto di vista. Il sorriso, inoltre, fa bene anche ai neonati: se durante l'allattamento la mamma si concede delle sane risate il latte materno si arricchisce di melatonina che aiuta il piccolo a dormire e a difendersi dall'eczema cutaneo.
La felicità è contagiosa, 09/01/09
Perché ridere salva la vita, 26/10/08
L'ottimismo aiuta la salute, 13/03/08
http://www.sanitanews.it/quotidiano/intarticolo.php?id=2284&sendid=476
ATTRAVERSO UNA RISATA SI PU0’ INNALZARE LA SOGLIA DEL DOLORE
La rivista americana Mind ha svelato tutti i benefici del sorriso, anche di quello finto. Una risata rende infatti migliore l'umore, libera endorfine, aiuta a resistere allo stress, rilassa i muscoli del viso abbassa la pressione del sangue e addolcisce il latte materno. Secondo uno studio di Willibald Ruch, dell'Università di Zurigo, le risate che nascono da battute, commedie divertenti o barzellette riescono addirittura ad alzare la soglia del dolore. Ma gli studi fatti sul sorriso sono molti e tutti evidenziano il suo effetto terapeutico. Un recente lavoro pubblicato sull'International Journal of Obesity ha dimostrato che ridere 15 minuti al giorno può permettere di perdere oltre due chili in un anno. Questo grazie all'accelerazione del battito cardiaco e al coinvolgimento di molti muscoli. Secondo l'autore dello studio Maciej Buchowski, della Vanderbilt University presso Nashville in Tennessee, sorridere è un po' come camminare. Secondo un altro studio di Eric Bressler, del Westfield State College, le donne prediligono quegli uomini sotto la cui foto c'è una battuta attribuita al soggetto immortalato. La terapia del sorriso, inoltre, è molto utilizzata dagli psichiatri nella cura delle depressione lieve. Per gli psichiatri dell'università tedesca di Marburg, ridere aiuta a distaccarsi dai problemi e a vederli da un altro punto di vista. Il sorriso, inoltre, fa bene anche ai neonati: se durante l'allattamento la mamma si concede delle sane risate il latte materno si arricchisce di melatonina che aiuta il piccolo a dormire e a difendersi dall'eczema cutaneo.
La felicità è contagiosa, 09/01/09
Perché ridere salva la vita, 26/10/08
L'ottimismo aiuta la salute, 13/03/08
martedì 31 marzo 2009
Accanimento diagnostico
da: Corriere della Sera.it
http://www.corriere.it/salute/09_marzo_30/vita_malattia_mortale_6a8f1684-1d0a-11de-aa2e-00144f02aabc.shtml
Allarme degli esperti: «Viviamo una vita troppo medicalizzata»
Si usano cure per situazioni che molti reputano patologiche ma in realtà sono fisiologiche
«La vita è una malattia sessualmente trasmessa ad esito fatale». L’adagio scherzoso che circola fra alcuni medici potrebbe essere tacciato di cinismo. E in effetti, prendendolo alla lettera lo sarebbe. Ma va detto che anche «l’accanimento diagnostico» se non è mortale può produrre discreti effetti collaterali. A riaccendere la miccia sulle polemiche dell’eccesso di «malattie», è un articolo apparso in apertura del sito della BBC online nel quale Tim Kendall, Joint Director del National Collaboration Centre for Mental Health e uomo chiave per le decisioni sanitarie del governo britannico, esprime in un'intervista la sua preoccupazione circa la «esondante» medicalizzazione della società.
SIAMO TUTTI MALATI - Nel Regno Unito, notoriamente, si è molto attenti alle spese, comprese quelle che lo Stato deve sostenere per la sanità pubblica, ma - fa notare Kendall - che al 10 per cento dei bambini britannici sia stato diagnosticata una malattia mentale, che, sempre per i sudditi di Elisabetta II, siano state fatte 34 milioni di prescrizioni di antidepressivi nel 2007 e che il 10 per cento dei ragazzini americani prenda una medicina contro la sindrome da iperattività , alimenta il sospetto che qualche esagerazione ci sia. «Se si consulta il manuale di riferimento degli psichiatri americani» fa notare Kendall nell’intervista alla Bbc, «si ha l’impressione che qualunque tipo di comportamento umano sia virtualmente patologico». L'esperto inglese vuole quindi denunciare una tendenza a «cercare di creare nuove categorie di malattia, non di rado laddove c’è, o ci sarà, un farmaco che potrebbe essere utilizzato al bisogno». Esempi? L’articolo della Bbc ne cita alcuni, come la «sindrome delle gambe senza riposo», piuttosto che la «fobia sociale», o alcuni disturbi della sfera sessuale femminile.
DISTINGUERE CASO PER CASO - Su queste, ma anche su diverse altre condizioni, il dibattito sull’opportunità di cure è acceso da tempo, e sono disponibili montagne di studi pronti a dimostrare l’esistenza, la gravità e la diffusione di ciascuna di esse. Nondimeno, però, esistono spesso dubbi sul fatto che tali studi siano sempre uno specchio fedele della realtà e non invece una forzatura interpretativa per medicalizzare condizioni che invece, se non proprio del tutto fisiologiche, nemmeno sono sempre acclaratamente patologiche. Ovviamente bisogna sempre distinguere caso per caso, perché quando un farmaco ci vuole è sacrosanto prescriverlo(per il medico) e necessario prenderlo (per il paziente), ma quando non ci vuole è inutile. E questo sta alla sensibilità e alla capacità dei medici valutarl. Se qualcuno davvero non riesce a dormire la notte perché le sue gambe sono «senza riposo», cioè non riescono stare ferme, può trarre sicuro giovamento da un farmaco ad hoc, ma se è solo un po’ nervoso quel farmaco potrebbe, non servirgli , e produrre magari qualche effetto collaterale inutile, se non altro al suo portafoglio o a quello del sistema sanitario che lo rimborsa. E il problema non esiste solo per le medicine, ma anche per alcuni esami. Un antigene dosato per rilevare il tumore alla prostata, il Psa, era prescritto a tappeto fino a qualche anno fa, e invece oggi la maggior parte degli studiosi sostiene che rimane utile, e persino prezioso, in certe circostanze, ma può condurre a un eccesso di biopsie prostatiche in altre, quindi non andrebbe più usato, perlomeno da solo, per gli screening di massa. Va da sé che sarà lo specialista a valutare quando può dare un’informazione in più, utile per inquadrare la situazione di un paziente.
A TEATRO - Se può consolare, questo fenomeno, noto fra gli addetti ai lavori come «disease mongering», non è certo nuovo, e non c'è bisogno della Bbc per ricordarlo. Basti pensare che già nel 1923 a Parigi andava in scena a teatro «Il Trionfo della Medicina», commedia di Jules Romains in cui il dottor Knoch, giovane dottore appena nominato medico condotto in un paesino di campagna recitava: «La popolazione è sana soltanto perché non sa di essere malata». Stabilire dove stiano i confini tra salute e malattia non è facile A volte quei confini sono chiari e netti, le malattie sono reali e dolorose, e la cura con farmaci, terapie, procedimenti medici, sono quanto di più auspicabile ci possa essere. In altre circostanze, però, i limiti che delineano la patologia tendono sempre di più ad ampliarsi. Oppure problemi di salute sono talmente lievi o passeggeri che non giustificano una loro medicalizzazione.
IL MECCANISMO - Il meccanismo che sta alla base del «disease mongering» di solito è ricorrente: si parte da una patologia esistente e curabile farmacologicamente e poi, con operazioni ad hoc la si promuove e descrive in termini abbastanza generici da coinvolgere quanti più soggetti possibili. In altre occasioni addirittura il punto di partenza non è una malattia quanto piuttosto un problema, o semplicemente un fenomeno, che viene ridefinito opportunamente in chiave patologica. Non è che le patologie siano il risultato della creatività dell’industria: le malattie esistono, come pure sono normate e regolamentate le indicazioni per usare i farmaci, ma c’è un potente sforzo collaterale per spingere verso la medicina situazioni in cui un suo intervento è superfluo. Un sistema simile, così per come è strutturato, inevitabilmente genera e produce tendenze crescenti di medicalizzazione non sempre giustificate. Queste, se portate all’eccesso, non fanno bene né allo Stato né al cittadino: il contenimento della spesa sanitaria e la riduzione degli sprechi sono un problema importantissimo oggi per i responsabili della cosa pubblica di tutti i Paesi occidentali .
FRA DUE POLI - Pensare di essere malati perchè si perdono i capelli, oppure perchè si ha un po' di mal di testa mal di testa prima del ciclo mestruale, oppure perchè....si invecchia, può essere fuorviante. La paura di rischi irrilevanti o inesistenti per la salute è profondamente malsana. Il richiamo di Kendall è in realtà motivato soprattutto dalla sua preoccupazione che anche in Europa possa essere ammessa la pubblicità diretta di farmaci soggetti a prescrizione al pubblico, come già avviene negli Usa. Pensiamo di poter però sintetizzare che il suo invito è che si sappia mantenere un ragionevole equilibrio tra i rischi sopportabili e quelli che non lo sono. Senza cadere nell'eccesso opposto: per un vero malato di depressione una terapia adeguata può fare la differenza fra la vita a la morte (non solo in senso fisco), così come per un malato di tumore o di una malattia del cuore. E allo stesso modo la prevenzione, quando attuata secondo criteri opportuni non solo può risparmiare una malattia o la vita stessa, ma fa anche risparmiare soldi alle casse dello Stato.
Luigi Ripamonti
http://www.corriere.it/salute/09_marzo_30/vita_malattia_mortale_6a8f1684-1d0a-11de-aa2e-00144f02aabc.shtml
Allarme degli esperti: «Viviamo una vita troppo medicalizzata»
Si usano cure per situazioni che molti reputano patologiche ma in realtà sono fisiologiche
«La vita è una malattia sessualmente trasmessa ad esito fatale». L’adagio scherzoso che circola fra alcuni medici potrebbe essere tacciato di cinismo. E in effetti, prendendolo alla lettera lo sarebbe. Ma va detto che anche «l’accanimento diagnostico» se non è mortale può produrre discreti effetti collaterali. A riaccendere la miccia sulle polemiche dell’eccesso di «malattie», è un articolo apparso in apertura del sito della BBC online nel quale Tim Kendall, Joint Director del National Collaboration Centre for Mental Health e uomo chiave per le decisioni sanitarie del governo britannico, esprime in un'intervista la sua preoccupazione circa la «esondante» medicalizzazione della società.
SIAMO TUTTI MALATI - Nel Regno Unito, notoriamente, si è molto attenti alle spese, comprese quelle che lo Stato deve sostenere per la sanità pubblica, ma - fa notare Kendall - che al 10 per cento dei bambini britannici sia stato diagnosticata una malattia mentale, che, sempre per i sudditi di Elisabetta II, siano state fatte 34 milioni di prescrizioni di antidepressivi nel 2007 e che il 10 per cento dei ragazzini americani prenda una medicina contro la sindrome da iperattività , alimenta il sospetto che qualche esagerazione ci sia. «Se si consulta il manuale di riferimento degli psichiatri americani» fa notare Kendall nell’intervista alla Bbc, «si ha l’impressione che qualunque tipo di comportamento umano sia virtualmente patologico». L'esperto inglese vuole quindi denunciare una tendenza a «cercare di creare nuove categorie di malattia, non di rado laddove c’è, o ci sarà, un farmaco che potrebbe essere utilizzato al bisogno». Esempi? L’articolo della Bbc ne cita alcuni, come la «sindrome delle gambe senza riposo», piuttosto che la «fobia sociale», o alcuni disturbi della sfera sessuale femminile.
DISTINGUERE CASO PER CASO - Su queste, ma anche su diverse altre condizioni, il dibattito sull’opportunità di cure è acceso da tempo, e sono disponibili montagne di studi pronti a dimostrare l’esistenza, la gravità e la diffusione di ciascuna di esse. Nondimeno, però, esistono spesso dubbi sul fatto che tali studi siano sempre uno specchio fedele della realtà e non invece una forzatura interpretativa per medicalizzare condizioni che invece, se non proprio del tutto fisiologiche, nemmeno sono sempre acclaratamente patologiche. Ovviamente bisogna sempre distinguere caso per caso, perché quando un farmaco ci vuole è sacrosanto prescriverlo(per il medico) e necessario prenderlo (per il paziente), ma quando non ci vuole è inutile. E questo sta alla sensibilità e alla capacità dei medici valutarl. Se qualcuno davvero non riesce a dormire la notte perché le sue gambe sono «senza riposo», cioè non riescono stare ferme, può trarre sicuro giovamento da un farmaco ad hoc, ma se è solo un po’ nervoso quel farmaco potrebbe, non servirgli , e produrre magari qualche effetto collaterale inutile, se non altro al suo portafoglio o a quello del sistema sanitario che lo rimborsa. E il problema non esiste solo per le medicine, ma anche per alcuni esami. Un antigene dosato per rilevare il tumore alla prostata, il Psa, era prescritto a tappeto fino a qualche anno fa, e invece oggi la maggior parte degli studiosi sostiene che rimane utile, e persino prezioso, in certe circostanze, ma può condurre a un eccesso di biopsie prostatiche in altre, quindi non andrebbe più usato, perlomeno da solo, per gli screening di massa. Va da sé che sarà lo specialista a valutare quando può dare un’informazione in più, utile per inquadrare la situazione di un paziente.
A TEATRO - Se può consolare, questo fenomeno, noto fra gli addetti ai lavori come «disease mongering», non è certo nuovo, e non c'è bisogno della Bbc per ricordarlo. Basti pensare che già nel 1923 a Parigi andava in scena a teatro «Il Trionfo della Medicina», commedia di Jules Romains in cui il dottor Knoch, giovane dottore appena nominato medico condotto in un paesino di campagna recitava: «La popolazione è sana soltanto perché non sa di essere malata». Stabilire dove stiano i confini tra salute e malattia non è facile A volte quei confini sono chiari e netti, le malattie sono reali e dolorose, e la cura con farmaci, terapie, procedimenti medici, sono quanto di più auspicabile ci possa essere. In altre circostanze, però, i limiti che delineano la patologia tendono sempre di più ad ampliarsi. Oppure problemi di salute sono talmente lievi o passeggeri che non giustificano una loro medicalizzazione.
IL MECCANISMO - Il meccanismo che sta alla base del «disease mongering» di solito è ricorrente: si parte da una patologia esistente e curabile farmacologicamente e poi, con operazioni ad hoc la si promuove e descrive in termini abbastanza generici da coinvolgere quanti più soggetti possibili. In altre occasioni addirittura il punto di partenza non è una malattia quanto piuttosto un problema, o semplicemente un fenomeno, che viene ridefinito opportunamente in chiave patologica. Non è che le patologie siano il risultato della creatività dell’industria: le malattie esistono, come pure sono normate e regolamentate le indicazioni per usare i farmaci, ma c’è un potente sforzo collaterale per spingere verso la medicina situazioni in cui un suo intervento è superfluo. Un sistema simile, così per come è strutturato, inevitabilmente genera e produce tendenze crescenti di medicalizzazione non sempre giustificate. Queste, se portate all’eccesso, non fanno bene né allo Stato né al cittadino: il contenimento della spesa sanitaria e la riduzione degli sprechi sono un problema importantissimo oggi per i responsabili della cosa pubblica di tutti i Paesi occidentali .
FRA DUE POLI - Pensare di essere malati perchè si perdono i capelli, oppure perchè si ha un po' di mal di testa mal di testa prima del ciclo mestruale, oppure perchè....si invecchia, può essere fuorviante. La paura di rischi irrilevanti o inesistenti per la salute è profondamente malsana. Il richiamo di Kendall è in realtà motivato soprattutto dalla sua preoccupazione che anche in Europa possa essere ammessa la pubblicità diretta di farmaci soggetti a prescrizione al pubblico, come già avviene negli Usa. Pensiamo di poter però sintetizzare che il suo invito è che si sappia mantenere un ragionevole equilibrio tra i rischi sopportabili e quelli che non lo sono. Senza cadere nell'eccesso opposto: per un vero malato di depressione una terapia adeguata può fare la differenza fra la vita a la morte (non solo in senso fisco), così come per un malato di tumore o di una malattia del cuore. E allo stesso modo la prevenzione, quando attuata secondo criteri opportuni non solo può risparmiare una malattia o la vita stessa, ma fa anche risparmiare soldi alle casse dello Stato.
Luigi Ripamonti
venerdì 20 febbraio 2009
Le Connessioni Inattese.it
In questo numero (Dicembre 2008):
- Gli obiettivi dell’Associazione Culturale ALTANUR (A.Scuotto)
http://www.leconnessioniinattese.it/2/2.html
http://www.youtube.com/watch?v=-A3QtAvfVrg
- Gli obiettivi dell’Associazione Culturale ALTANUR (A.Scuotto)
http://www.leconnessioniinattese.it/2/2.html
http://www.youtube.com/watch?v=-A3QtAvfVrg
- Il confine tra Scienza, Storia e Mito (S. Scuotto)
http://www.leconnessioniinattese.it/2/2_a.html
- Sento. Di Lucio Esposito (O. Russo)
http://www.leconnessioniinattese.it/2/2_b.html
- Dal Mito al Rito attraverso la maschera (M. Scognamiglio)
http://www.leconnessioniinattese.it/2/2_c.html
- Paradigma epistemologico (A. Ianniello)
http://www.leconnessioniinattese.it/2/2_d.html
- Filiazione (L. Quintavalle)
http://www.leconnessioniinattese.it/2/2_e.html
http://www.leconnessioniinattese.it/2/2_a.html
- Sento. Di Lucio Esposito (O. Russo)
http://www.leconnessioniinattese.it/2/2_b.html
- Dal Mito al Rito attraverso la maschera (M. Scognamiglio)
http://www.leconnessioniinattese.it/2/2_c.html
- Paradigma epistemologico (A. Ianniello)
http://www.leconnessioniinattese.it/2/2_d.html
- Filiazione (L. Quintavalle)
http://www.leconnessioniinattese.it/2/2_e.html
venerdì 13 febbraio 2009
Raffreddore, rischio per la guida?
Per chi guida un'influenza è quasi peggio di due whisky
di Alessandro Scuotto
E’ di qualche giorno fa la notizia che mettersi alla guida ammalati di raffreddore o di influenza può comportare dei rischi. Uno studio britannico, commissionato dalla Lloyd TSB Insurance, ha rilevato che queste malattie riducono l’attenzione del guidatore dell’11-13%, una percentuale simile a quella riscontrabile nel guidatore con un aumento del tasso di alcool nel sangue pari al consumo di due whisky.
La ricerca è, in verità, condotta in modo scientificamente scrupoloso. L’uso di un simulatore della percezione di rischio e il campione sufficientemente ampio di individui sottoposti ad analisi portano a risultati statisticamente significativi. In più sono stati anche valutati gli effetti di altre condizioni di malessere (cefalea, sindrome premestruale, stress), che non hanno comportato una rilevante riduzione della percezione di rischio (solo il 4%). L’articolo è perfino corredato di una tabella illustrativa che evidenzia la distanza percorsa mentre si compie uno starnuto (circa 2 secondi) a varie velocità di guida: 27 metri circa a 50 km/h, più di 50m a 100km/h.
La relazione diretta causa-effetto tra stato di malattia e incidente è una supposizione ragionevole, ma non completamente dimostrata, inoltre ci sembra che l’applicabilità in pratica del risultato di questa ricerca sia piuttosto impegnativo.
Forse siamo maliziosi nel pensare che la Compagnia Assicurativa avesse qualche interesse nel commissionare tale ricerca con l’aspettativa ben riposta di tale risultato. Ma le parole della portavoce dell’Assicurazione ci suggeriscono questo sospetto. Infatti dice: "La nostra ricerca prova che mettersi alla guida quando si è ammalati causa migliaia di incidenti ogni anno. Ciò porta a un duplice avvertimento per i guidatori – primo, cercare di evitare di mettersi alla guida se affetti da influenza o raffreddore, e secondo essere preparati alla irresponsabilità di altri guidatori accertandosi di avere un’assicurazione completa (in lingua originale comprehensive)". In pratica si consiglia di stipulare un’assicurazione “casco”, di costo più elevato rispetto alla convenzionale assicurazione per il rischio automobilistico.
Questa comunicazione viene fornita, in modo opportuno, in un periodo dell’anno in cui l’incidenza di malattie da raffreddamento è molto elevata nella popolazione; ci aspettiamo tra qualche mese, in primavera,una analoga ricerca nei confronti delle persone con rinite allergica, anch’essi dispensatori di starnuti.
Ma queste notizie, che arrivano al pubblico dalla ricerca scientifica, attraverso i canali di informazione ordinari in maniera sovente tanto sintetica da avere un effetto slogan, ci inducono una riflessione scherzosa. Non desidereremmo infatti che un legislatore burlone ci imponesse l’uso della “maglia della salute” se la nostra auto è dotata di climatizzatore; inoltre speriamo che, nel caso vi fosse obbligo per la polizia stradale di rilevare la temperatura corporea delle persone al volante, ci sia concesso di utilizzare un metodo poco invasivo.
Articolo pubblicato sul quotidiano L'Ordine, 12 febbraio 2009
di Alessandro Scuotto
E’ di qualche giorno fa la notizia che mettersi alla guida ammalati di raffreddore o di influenza può comportare dei rischi. Uno studio britannico, commissionato dalla Lloyd TSB Insurance, ha rilevato che queste malattie riducono l’attenzione del guidatore dell’11-13%, una percentuale simile a quella riscontrabile nel guidatore con un aumento del tasso di alcool nel sangue pari al consumo di due whisky.
La ricerca è, in verità, condotta in modo scientificamente scrupoloso. L’uso di un simulatore della percezione di rischio e il campione sufficientemente ampio di individui sottoposti ad analisi portano a risultati statisticamente significativi. In più sono stati anche valutati gli effetti di altre condizioni di malessere (cefalea, sindrome premestruale, stress), che non hanno comportato una rilevante riduzione della percezione di rischio (solo il 4%). L’articolo è perfino corredato di una tabella illustrativa che evidenzia la distanza percorsa mentre si compie uno starnuto (circa 2 secondi) a varie velocità di guida: 27 metri circa a 50 km/h, più di 50m a 100km/h.
La relazione diretta causa-effetto tra stato di malattia e incidente è una supposizione ragionevole, ma non completamente dimostrata, inoltre ci sembra che l’applicabilità in pratica del risultato di questa ricerca sia piuttosto impegnativo.
Forse siamo maliziosi nel pensare che la Compagnia Assicurativa avesse qualche interesse nel commissionare tale ricerca con l’aspettativa ben riposta di tale risultato. Ma le parole della portavoce dell’Assicurazione ci suggeriscono questo sospetto. Infatti dice: "La nostra ricerca prova che mettersi alla guida quando si è ammalati causa migliaia di incidenti ogni anno. Ciò porta a un duplice avvertimento per i guidatori – primo, cercare di evitare di mettersi alla guida se affetti da influenza o raffreddore, e secondo essere preparati alla irresponsabilità di altri guidatori accertandosi di avere un’assicurazione completa (in lingua originale comprehensive)". In pratica si consiglia di stipulare un’assicurazione “casco”, di costo più elevato rispetto alla convenzionale assicurazione per il rischio automobilistico.
Questa comunicazione viene fornita, in modo opportuno, in un periodo dell’anno in cui l’incidenza di malattie da raffreddamento è molto elevata nella popolazione; ci aspettiamo tra qualche mese, in primavera,una analoga ricerca nei confronti delle persone con rinite allergica, anch’essi dispensatori di starnuti.
Ma queste notizie, che arrivano al pubblico dalla ricerca scientifica, attraverso i canali di informazione ordinari in maniera sovente tanto sintetica da avere un effetto slogan, ci inducono una riflessione scherzosa. Non desidereremmo infatti che un legislatore burlone ci imponesse l’uso della “maglia della salute” se la nostra auto è dotata di climatizzatore; inoltre speriamo che, nel caso vi fosse obbligo per la polizia stradale di rilevare la temperatura corporea delle persone al volante, ci sia concesso di utilizzare un metodo poco invasivo.
Articolo pubblicato sul quotidiano L'Ordine, 12 febbraio 2009
venerdì 6 febbraio 2009
Medici e immigrati
Non ti denuncerò.
di Alessandro Scuotto
Ieri, con emendamento approvato al Senato, è stato soppresso il comma 5 dell’articolo 35 del DL 25 luglio1998, n.286: “L’accesso alla struttura sanitaria da parte dello straniero non in regola con le norme sul soggiorno non può comportare alcun tipo di segnalazione all'autorità, salvo i casi in cui sia obbligatorio il referto, a parità di condizioni con il cittadino italiano”.
Dunque un medico può denunciare un immigrato irregolare che gli si rivolge per problemi di salute.
Può non significa che deve farlo!
La Federazione degli Ordini dei Medici, i medici cattolici italiani, l’organizzazione umanitaria “Medici senza Frontiere” e tante altre autorevoli organizzazioni sanitarie e non hanno già espresso il dissenso sull’emendamento. Come medico ne sono confortato e desidero manifestare la mia opinione.
Non so se, nell’esercizio della professione, mi capiterà di trovarmi in questa posizione, ma caro cittadino - italiano o straniero, regolarmente ammesso o irregolarmente presente in Italia - voglio farti sapere che, nell’osservanza delle leggi dello Stato, nell’adempimento delle disposizioni del codice deontologico e nel rispetto dei principi etici, io non ti denuncerò.
Non ti denuncerò. Perché ho giurato che: “dovere del medico è la tutela della vita, della salute fisica e psichica dell’Uomo e il sollievo della sofferenza nel rispetto della libertà e della dignità della persona umana, senza distinzioni di sesso, di etnia, di religione, di nazionalità, di condizione sociale, di ideologia, in tempo di pace e in tempo di guerra, quali che siano le condizioni istituzionali o sociali nelle quali opera” (Art. 3 del Codice di Deontologia Medica, 16 dicembre 2006)
Non ti denuncerò. Perché ho giurato di ispirarmi “ai valori etici della professione, assumendo come principio il rispetto della vita, della salute fisica e psichica, della libertà e della dignità della persona” e di non dover “soggiacere a interessi, imposizioni e suggestioni di altra natura” (art. 4).
Non ti denuncerò. Perché ho giurato di “collaborare alla eliminazione di ogni forma di discriminazione in campo sanitario, al fine di garantire a tutti i cittadini stesse opportunità di accesso, disponibilità, utilizzazione e qualità di cure” (art.6).
Non ti denuncerò perché un medico “non può mai rifiutarsi di prestare soccorso o cure d’urgenza e deve tempestivamente attivarsi per assicurare assistenza” (art.8).
Non ti denuncerò perché “il medico deve mantenere il segreto su tutto ciò che gli è confidato o di cui venga a conoscenza nell’esercizio della professione” e perché “il medico non deve rendere al Giudice testimonianza su fatti e circostanze inerenti il segreto professionale” (art.10).
Ma soprattutto non ti denuncerò perché ho scelto di essere dalla tua parte, nella lotta contro la malattia e contro la sofferenza, e desidero che tu ti fidi di me.
di Alessandro Scuotto
Ieri, con emendamento approvato al Senato, è stato soppresso il comma 5 dell’articolo 35 del DL 25 luglio1998, n.286: “L’accesso alla struttura sanitaria da parte dello straniero non in regola con le norme sul soggiorno non può comportare alcun tipo di segnalazione all'autorità, salvo i casi in cui sia obbligatorio il referto, a parità di condizioni con il cittadino italiano”.
Dunque un medico può denunciare un immigrato irregolare che gli si rivolge per problemi di salute.
Può non significa che deve farlo!
La Federazione degli Ordini dei Medici, i medici cattolici italiani, l’organizzazione umanitaria “Medici senza Frontiere” e tante altre autorevoli organizzazioni sanitarie e non hanno già espresso il dissenso sull’emendamento. Come medico ne sono confortato e desidero manifestare la mia opinione.
Non so se, nell’esercizio della professione, mi capiterà di trovarmi in questa posizione, ma caro cittadino - italiano o straniero, regolarmente ammesso o irregolarmente presente in Italia - voglio farti sapere che, nell’osservanza delle leggi dello Stato, nell’adempimento delle disposizioni del codice deontologico e nel rispetto dei principi etici, io non ti denuncerò.
Non ti denuncerò. Perché ho giurato che: “dovere del medico è la tutela della vita, della salute fisica e psichica dell’Uomo e il sollievo della sofferenza nel rispetto della libertà e della dignità della persona umana, senza distinzioni di sesso, di etnia, di religione, di nazionalità, di condizione sociale, di ideologia, in tempo di pace e in tempo di guerra, quali che siano le condizioni istituzionali o sociali nelle quali opera” (Art. 3 del Codice di Deontologia Medica, 16 dicembre 2006)
Non ti denuncerò. Perché ho giurato di ispirarmi “ai valori etici della professione, assumendo come principio il rispetto della vita, della salute fisica e psichica, della libertà e della dignità della persona” e di non dover “soggiacere a interessi, imposizioni e suggestioni di altra natura” (art. 4).
Non ti denuncerò. Perché ho giurato di “collaborare alla eliminazione di ogni forma di discriminazione in campo sanitario, al fine di garantire a tutti i cittadini stesse opportunità di accesso, disponibilità, utilizzazione e qualità di cure” (art.6).
Non ti denuncerò perché un medico “non può mai rifiutarsi di prestare soccorso o cure d’urgenza e deve tempestivamente attivarsi per assicurare assistenza” (art.8).
Non ti denuncerò perché “il medico deve mantenere il segreto su tutto ciò che gli è confidato o di cui venga a conoscenza nell’esercizio della professione” e perché “il medico non deve rendere al Giudice testimonianza su fatti e circostanze inerenti il segreto professionale” (art.10).
Ma soprattutto non ti denuncerò perché ho scelto di essere dalla tua parte, nella lotta contro la malattia e contro la sofferenza, e desidero che tu ti fidi di me.
Articolo pubblicato sul quotidiano L'Ordine, 6 febbraio 2009.
sabato 24 gennaio 2009
Controversie in agopuntura
L'agopuntura non è placebo. Perché...
di Alessandro Scuotto
Il fatto che una pratica medica, sottoposta a critica qualche giorno fa sulle pagine di un quotidiano di informazione, abbia ottenuto la sua apologia su questo quotidiano da parte di un paziente – sia pure una autorevole firma giornalistica – in parte mi solleva dall’ipotesi che gli oltre venti anni da me dedicati allo studio e all’applicazione dell’agopuntura possano essere ridotti all’esercizio di imbonitore o di persuasore occulto. Nel contempo l’episodio mi stimola a qualche riflessione.
Il successo terapeutico di cui A.M. Parrino è dichiaratamente testimone non è una condizione episodica e non ha apparenze mirabolanti, ma rientra tra le aspettative consolidate dalla statistica: il 65% circa delle persone, che si sottopongono a terapia con agopuntura contro l’abitudine al fumo, smettono di fumare; il 25% circa riduce in maniera significativa il numero di sigarette consumate; il 10% circa non risponde alla terapia.
Non è questa la sede per discutere nel merito della questione: il dibattito scientifico va condotto nei luoghi opportuni e su queste righe otterrebbe solo di annoiare il lettore non addetto ai lavori. Ma mi sembra opportuno una serie di considerazioni metodologiche sulla divulgazione scientifica. L’articolo scientifico in lingua originale, al quale il corrispondente di Repubblica fa riferimento, è consultabile facilmente al sito www.cochrane.org/reviews/en/ab007587.html; in primo luogo in esso non ci si riferisce all’emicrania, come erroneamente segnalato su Repubblica, ma ad un’altra patologia: la cefalea muscolo-tensiva. Inoltre le conclusioni alle quali pervengono gli autori sono le seguenti: “l’agopuntura potrebbe essere un apprezzabile strumento non-farmacologico nei pazienti con cefalea tensiva frequente, episodica o cronica”. Tuttavia l’accento sull’effetto placebo, posto nell’articolo di E. Franceschini su Repubblica, non mi sembra abbia riscontro con quanto segnalato nel lavoro scientifico nel quale Linde e coll. riferiscono piccoli benefici, ma statisticamente significativi, dell’agopuntura nel confronto con l’infissione casuale di aghi (“falsa agopuntura”).
L’effetto placebo è insito in ogni pratica medica ed è parzialmente responsabile di ogni successo terapeutico; si badi bene, parzialmente non vuol dire che una parte dei successi è esclusivamente dovuta a questo effetto, ma che tale componente agevola la buona risposta alla terapia, anzi è spesso invocata: ogni medico, con sufficiente esperienza clinica, punta alla collaborazione del paziente per ottenere la sua guarigione, e sarebbe folle a non farlo.
L’effetto placebo è indiscutibile, come è altrettanto innegabile il suo opposto: l’effetto “nocebo”. Quello che si verifica allorquando si pone l’accento sugli effetti collaterali indesiderati di un farmaco più che sulla sua azione, quello che si induce con il riferimento alla percentuale di mortalità anziché di sopravvivenza ad un evento patologico, quello che si persegue con un tentativo di informazione, accompagnata dal pregiudizio, che punta a screditare l’efficacia di alcuni tipi di terapia.
Articolo pubblicato sul quotidiano L'Ordine, 24 gennaio 2009
di Alessandro Scuotto
Il fatto che una pratica medica, sottoposta a critica qualche giorno fa sulle pagine di un quotidiano di informazione, abbia ottenuto la sua apologia su questo quotidiano da parte di un paziente – sia pure una autorevole firma giornalistica – in parte mi solleva dall’ipotesi che gli oltre venti anni da me dedicati allo studio e all’applicazione dell’agopuntura possano essere ridotti all’esercizio di imbonitore o di persuasore occulto. Nel contempo l’episodio mi stimola a qualche riflessione.
Il successo terapeutico di cui A.M. Parrino è dichiaratamente testimone non è una condizione episodica e non ha apparenze mirabolanti, ma rientra tra le aspettative consolidate dalla statistica: il 65% circa delle persone, che si sottopongono a terapia con agopuntura contro l’abitudine al fumo, smettono di fumare; il 25% circa riduce in maniera significativa il numero di sigarette consumate; il 10% circa non risponde alla terapia.
Non è questa la sede per discutere nel merito della questione: il dibattito scientifico va condotto nei luoghi opportuni e su queste righe otterrebbe solo di annoiare il lettore non addetto ai lavori. Ma mi sembra opportuno una serie di considerazioni metodologiche sulla divulgazione scientifica. L’articolo scientifico in lingua originale, al quale il corrispondente di Repubblica fa riferimento, è consultabile facilmente al sito www.cochrane.org/reviews/en/ab007587.html; in primo luogo in esso non ci si riferisce all’emicrania, come erroneamente segnalato su Repubblica, ma ad un’altra patologia: la cefalea muscolo-tensiva. Inoltre le conclusioni alle quali pervengono gli autori sono le seguenti: “l’agopuntura potrebbe essere un apprezzabile strumento non-farmacologico nei pazienti con cefalea tensiva frequente, episodica o cronica”. Tuttavia l’accento sull’effetto placebo, posto nell’articolo di E. Franceschini su Repubblica, non mi sembra abbia riscontro con quanto segnalato nel lavoro scientifico nel quale Linde e coll. riferiscono piccoli benefici, ma statisticamente significativi, dell’agopuntura nel confronto con l’infissione casuale di aghi (“falsa agopuntura”).
L’effetto placebo è insito in ogni pratica medica ed è parzialmente responsabile di ogni successo terapeutico; si badi bene, parzialmente non vuol dire che una parte dei successi è esclusivamente dovuta a questo effetto, ma che tale componente agevola la buona risposta alla terapia, anzi è spesso invocata: ogni medico, con sufficiente esperienza clinica, punta alla collaborazione del paziente per ottenere la sua guarigione, e sarebbe folle a non farlo.
L’effetto placebo è indiscutibile, come è altrettanto innegabile il suo opposto: l’effetto “nocebo”. Quello che si verifica allorquando si pone l’accento sugli effetti collaterali indesiderati di un farmaco più che sulla sua azione, quello che si induce con il riferimento alla percentuale di mortalità anziché di sopravvivenza ad un evento patologico, quello che si persegue con un tentativo di informazione, accompagnata dal pregiudizio, che punta a screditare l’efficacia di alcuni tipi di terapia.
Articolo pubblicato sul quotidiano L'Ordine, 24 gennaio 2009
venerdì 9 gennaio 2009
La felicità è contagiosa
La felicità è contagiosa. – British Medical Journal
da: Medical News Today, 6 dicembre 2008
Traduzione dall'originale inglese di Silvia Scuotto
La felicità può davvero trasmettersi. Una ricerca pubblicata oggi su bmj.com prova che la felicità di una persona dipende dalla felicità di coloro i quali le sono accanto.
La felicità non è soltanto un’esperienza o una scelta individuale, ma dipende dalla felicità delle persone con le quali gli individui entrano in contatto, direttamente e indirettamente, e richiede una stretta vicinanza per diffondersi, dicono gli autori. Per esempio, un amico che diventa felice e vive tenendo duro, accresce la tua probabilità di felicità del 25%.
Il Professor Nicholas Christakis dell’Harvard Medical School e il Professor James Fowler dell’University of California, San Diego, hanno analizzato dati raccolti nel Framingham Heart Study, per scoprire se la felicità possa trasmettersi da persona a persona e se gruppi di felicità si formino all’interno di network sociali.
Nella Framingham Heart Study 5.124 adulti tra i 21 e i 70 anni furono reclutati e seguiti tra il 1971 e il 2003, per esaminare vari aspetti delle loro vite e la loro salute. Ai partecipanti fu chiesto di identificare i loro parenti, gli amici stretti, il luogo di residenza, e il luogo di lavoro, per garantire che potessero essere contattati ogni 2-4 anni per essere seguiti. Gli autori trovarono 53.228 legami sociali tra i 5.124 partecipanti per un totale di 12.067 persone. Si concentrarono su 4.739 persone seguite dal 1983 al 2003.
Ulteriori dati sulla salute mentale, raccolti utilizzando una scala di valutazione della depressione, registrarono accordo o disaccordo con quattro affermazioni “Ero speranzoso sul futuro”, “Ero felice”, “Mi piaceva la vita”, “Sentivo di essere buono quanto le altre persone”. In questo scritto su BMJ, gli autori definirono la felicità come un perfetto punto di partenza per tutte e quattro le affermazioni.
Utilizzando analisi statistiche, i ricercatori misurarono come i network sociali fossero correlati con la riportata felicità. Scoprirono che in una convivenza, quando uno dei due partner diventa felice, aumenta la probabilità dell’altro di essere felice dell’8%, effetti simili furono visti tra fratelli che vivono a stretto contatto (14%) e vicini di casa (34%). I colleghi di lavoro non si trasmettevano felicità, il che suggerisce che il contesto sociale può limitare la trasmissione di stati emotivi.
La cosa interessante sta nel fatto che non sono solo i legami sociali immediati ad avere impatto sui livelli di felicità, ma la relazione tra la felicità delle persone si può estendere a tre gradi di separazione (all’amico dell’amico di un amico). Infatti, le persone che sono circondate da gente felice probabilmente diverranno felici in futuro.
In modo rilevante, riportano che la stretta vicinanza fisica è essenziale perché la felicità si trasmetta. Una persona ha il 42% di possibilità in più di essere felice se un amico che vive a meno di mezzo miglio di distanza diventa felice, l’effetto è solo del 22% per gli amici che vivono a meno di due miglia di distanza, e questo effetto declina e diviene insignificante alle maggiori distanze.
Le scoperte suggeriscono che i gruppi di felicità risultino dalla trasmissione della felicità e non solo da una tendenza delle persone a omologarsi a individui simili.
Gli autori dicono:”I cambiamenti nella felicità individuale possono propagarsi attraverso network sociali e generare una lunga struttura nel network, facendo sorgere gruppi di felicità e infelicità individuali.”
Concludono:”La cosa più importante dal nostro punto di vista è il riconoscimento che queste persone sono incastrate in network sociali e che la salute e il benessere di una persona influisca sulla salute e sul benessere di altri. Questo dato importante fornisce una fondamentale giustificazione concettuale per la caratteristica della salute pubblica. La felicità degli uomini non è semplicemente il territorio di individui isolati.”
In una redazione associata, il Professor Andrew Steptoe, dell’University College di Londra, e la Professoressa Ana Diez Roux, dell’University of Michigan School of Public Health, aggiungono che lo studio è “innovatore”: “Se, (some queste scoperte suggeriscono) la felicità è, appunto, trasmessa tramite connessioni sociali, potrebbe indirettamente contribuire alla trasmissione sociale della salute”, e ha importanti implicazioni per la formazione della politica e delle mediazioni.
Comunque, in un’altra ricerca, Jason Fletcher, della Yale University, e Ethan Cohen-Cole, della Federal Reserve Bank of Boston, avvisano che i metodi usati per scoprire gli effetti dei network sociali negli studi di Christakis e Fowler sono soggetti a “potenziali grandi pregiudizi.. che potrebbero produrre effetti dove non ve ne sono.”
Esaminarono se gli effetti del network possano essere scoperti per tre problemi della salute – mal di testa, problemi di pelle, e altezza. Scoprirono che, ad esempio, i problemi di acne di un amico aumentano la probabilità dei problemi di acne dell’altro, e che anche la probabilità che un individuo abbia dei mal di testa aumenta con la presenza di un amico che ha mal di testa. Ma dopo aver controllato le confusioni ambientali, questi effetti dei network sociali sparirono. Concludono: “Questi metodi possono produrre premature rivendicazioni di effetti del network sociale nei problemi di salute.”
La felicità può davvero trasmettersi. Una ricerca pubblicata oggi su bmj.com prova che la felicità di una persona dipende dalla felicità di coloro i quali le sono accanto.
La felicità non è soltanto un’esperienza o una scelta individuale, ma dipende dalla felicità delle persone con le quali gli individui entrano in contatto, direttamente e indirettamente, e richiede una stretta vicinanza per diffondersi, dicono gli autori. Per esempio, un amico che diventa felice e vive tenendo duro, accresce la tua probabilità di felicità del 25%.
Il Professor Nicholas Christakis dell’Harvard Medical School e il Professor James Fowler dell’University of California, San Diego, hanno analizzato dati raccolti nel Framingham Heart Study, per scoprire se la felicità possa trasmettersi da persona a persona e se gruppi di felicità si formino all’interno di network sociali.
Nella Framingham Heart Study 5.124 adulti tra i 21 e i 70 anni furono reclutati e seguiti tra il 1971 e il 2003, per esaminare vari aspetti delle loro vite e la loro salute. Ai partecipanti fu chiesto di identificare i loro parenti, gli amici stretti, il luogo di residenza, e il luogo di lavoro, per garantire che potessero essere contattati ogni 2-4 anni per essere seguiti. Gli autori trovarono 53.228 legami sociali tra i 5.124 partecipanti per un totale di 12.067 persone. Si concentrarono su 4.739 persone seguite dal 1983 al 2003.
Ulteriori dati sulla salute mentale, raccolti utilizzando una scala di valutazione della depressione, registrarono accordo o disaccordo con quattro affermazioni “Ero speranzoso sul futuro”, “Ero felice”, “Mi piaceva la vita”, “Sentivo di essere buono quanto le altre persone”. In questo scritto su BMJ, gli autori definirono la felicità come un perfetto punto di partenza per tutte e quattro le affermazioni.
Utilizzando analisi statistiche, i ricercatori misurarono come i network sociali fossero correlati con la riportata felicità. Scoprirono che in una convivenza, quando uno dei due partner diventa felice, aumenta la probabilità dell’altro di essere felice dell’8%, effetti simili furono visti tra fratelli che vivono a stretto contatto (14%) e vicini di casa (34%). I colleghi di lavoro non si trasmettevano felicità, il che suggerisce che il contesto sociale può limitare la trasmissione di stati emotivi.
La cosa interessante sta nel fatto che non sono solo i legami sociali immediati ad avere impatto sui livelli di felicità, ma la relazione tra la felicità delle persone si può estendere a tre gradi di separazione (all’amico dell’amico di un amico). Infatti, le persone che sono circondate da gente felice probabilmente diverranno felici in futuro.
In modo rilevante, riportano che la stretta vicinanza fisica è essenziale perché la felicità si trasmetta. Una persona ha il 42% di possibilità in più di essere felice se un amico che vive a meno di mezzo miglio di distanza diventa felice, l’effetto è solo del 22% per gli amici che vivono a meno di due miglia di distanza, e questo effetto declina e diviene insignificante alle maggiori distanze.
Le scoperte suggeriscono che i gruppi di felicità risultino dalla trasmissione della felicità e non solo da una tendenza delle persone a omologarsi a individui simili.
Gli autori dicono:”I cambiamenti nella felicità individuale possono propagarsi attraverso network sociali e generare una lunga struttura nel network, facendo sorgere gruppi di felicità e infelicità individuali.”
Concludono:”La cosa più importante dal nostro punto di vista è il riconoscimento che queste persone sono incastrate in network sociali e che la salute e il benessere di una persona influisca sulla salute e sul benessere di altri. Questo dato importante fornisce una fondamentale giustificazione concettuale per la caratteristica della salute pubblica. La felicità degli uomini non è semplicemente il territorio di individui isolati.”
In una redazione associata, il Professor Andrew Steptoe, dell’University College di Londra, e la Professoressa Ana Diez Roux, dell’University of Michigan School of Public Health, aggiungono che lo studio è “innovatore”: “Se, (some queste scoperte suggeriscono) la felicità è, appunto, trasmessa tramite connessioni sociali, potrebbe indirettamente contribuire alla trasmissione sociale della salute”, e ha importanti implicazioni per la formazione della politica e delle mediazioni.
Comunque, in un’altra ricerca, Jason Fletcher, della Yale University, e Ethan Cohen-Cole, della Federal Reserve Bank of Boston, avvisano che i metodi usati per scoprire gli effetti dei network sociali negli studi di Christakis e Fowler sono soggetti a “potenziali grandi pregiudizi.. che potrebbero produrre effetti dove non ve ne sono.”
Esaminarono se gli effetti del network possano essere scoperti per tre problemi della salute – mal di testa, problemi di pelle, e altezza. Scoprirono che, ad esempio, i problemi di acne di un amico aumentano la probabilità dei problemi di acne dell’altro, e che anche la probabilità che un individuo abbia dei mal di testa aumenta con la presenza di un amico che ha mal di testa. Ma dopo aver controllato le confusioni ambientali, questi effetti dei network sociali sparirono. Concludono: “Questi metodi possono produrre premature rivendicazioni di effetti del network sociale nei problemi di salute.”
Fowler JH, Christakis NA, Dynamyc spread of happiness in a large social network: lomgitudinal analysis over 20 years in the Framingham Heart Study, BMJ 2008; 377: a2338.
Cohen-Cole E, Fletcher J, Detecting implausible social network effects in acne, height, and headaches: longitudinal analysis, BMJ 2008; 377: a2533.
Steptol A, Diez Roux AV, Happiness, social network, and health, BMJ 2008; 377: a2781.
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